lunedì 22 luglio 2013

di Elido Fazi, CRONACA DI UN EVENTO PERDUTO AL VECCHIO PALAZZO, OVVERO A PALAZZO VECCHIO, CON RENZI E PITTELLA


Di seguito un articolo di Elido Fazi, il quale avrebbe dovuto incontrarsi a Palazzo Vecchio con Renzi per un dibattito sul futuro Europeo ma non ha potuto farlo per  improvvisi "impegni" televisivi di quest'ultimo. 

Nell'attesa sono nate alcune riflessioni.


Oggi alle ore 18,00 avrei dovuto essere a Firenze, a Palazzo Vecchio, a discutere insieme a Gianni Pittella, vicepresidente del Parlamento Europeo, e Matteo Renzi il libro Breve storia del futuro degli Stati Uniti d’Europa. Ma Renzi ieri è stato improvvisamente convocato da Enrico Mentana per la solita chiacchierata televisiva e pertanto l’evento è stato immediatamente cancellato. Così oggi mi ritrovo con qualche ora libera da impegni e provo a immaginare quello che avrei potuto dire a Firenze se, nel corso del dibattito, me ne avessero dato la possibilità, e se io ne avessi avuto l’estro (di solito parlo a braccio e non preparo nulla).

Il titolo del libro di cui avremmo dovuto parlare è discutibile, considerato che gli autori dopotutto parlano dello stato presente dell’Europa e quando accennano al futuro riportano soltanto la visione di alcuni burocrati, quelli della Commissione Europea che hanno prodotto un lungo rapporto intitolato “A Blueprint for a deep and genuine emu: Launching a European debate” e il rapporto presentato a dicembre dal presidente del Consiglio Europeo Van Rompuy – la mitica, si fa per dire, road map –  in cui gli autori del libro Breve storia, tra l’altro, credono poco, perché riflette il punto di vista non dei cittadini europei ma solo di quelli che lavorano nelle istituzioni europee o negli apparati degli Stati nazionali.

Ma qual è lo stato dell’Europa oggi? Bisogna subito puntualizzare che non esiste un unico discorso sull’Europa oggi, ma ne esistono almeno tre: uno è quello che potremmo attribuire all’Europa degli Stati e ai politici che la rappresentano, un secondo è portato avanti da quelli che potremmo definire l’Europa degli Eurotecnoburocrati, ma che per semplicità chiameremo l’Europa degli Uffici e di tutti quelli che ci mangiano con loro grande soddisfazione. Poi ci sono i discorsi di una terza Europa, quella dei cittadini.

Nell’Europa degli Stati parlano soprattutto i politici locali, la maggior parte dei quali ha capito poco di quello che sta a succedendo loro (discredito crescente da parte dei cittadini) né tantomeno capiscono qualcosa dei processi europei. Molti di questi credono che solo i rappresentanti politici degli Stati nazionali abbiano sufficiente autorità e capacità operative per far andare avanti l’Europa. I loro posti preferiti sono i meeting europei, soprattutto quelli del Consiglio Europeo, dove i premier sconosciuti degli staterelli e quelli di Paesi come l’Italia, che non hanno credibilità, puntano soprattutto alla foto ricordo a fianco di Angela Merkel. Una sorta di Congresso di Vienna permanente dove ogni politico fa finta di tornare a casa con qualcosa di vincente per la loro constituency (ma di solito tornano a mani vuote). Alcuni, soprattutto i tedeschi coltivano nuovi (o meglio novelli) sogni di gloria e di comando per il loro Stato.

Esiste poi un’altra Europa, quella dei cittadini europei. È un’Europa ancora bambina. Fino al 1992 non aveva nemmeno uno status costituzionale, esisteva solo come un’idea. I discorsi che fanno i cittadini europei sono totalmente diversi da quelli dell’Europa degli Stati o dell’Europa degli Uffici. Qui si discute se alcuni poteri sia meglio staccarli dallo Stato nazionale, per incorporarli in un qualcosa che per ora chiamiamo Stati Uniti d’Europa, per ricordare il concetto che il punto di arrivo dovrebbe essere simile a quello degli Stati Uniti d’America, dove alcuni Enti Centrali esercitano direttamente un potere su tutti i cittadini, bypassando gli Stati nazionali. L’idea di un’unione politica tra i vari Stati europei è una idea vecchissima. Il primo a sognarla fu addirittura Dante Alighieri e il primo a coniare l’espressione “Stati Uniti d’Europa” è stato non un politico, ma un altro cittadino scrittore, Victor Hugo, nel 1849. E dopo la prima guerra mondiale, il conte austriaco Coudenove-Kalergi catturò l’attenzione di molti con la sua idea di Pan-Europa, una organizzazione che avrebbe dovuto unire popoli e Stati. Molti intellettuali e scrittori (tra cui Einstein, Apollinaire e Thomas Mann) e qualche politico (il più noto è il sindaco di Colonia Konrad Adenauer) si entusiasmarono per le idee del conte austriaco.

L’Europa dei cittadini ha grandi speranze che un giorno si possa arrivare a un discorso politico europeo che rispecchi una pubblica opinione europea e che la maggior parte dei poteri risieda nel Parlamento europeo. Come nel caso dell’Europa degli Stati non è l’entità astratta dello Stato che parla, ma i suoi politici, così nell’Europa dei cittadini non sono i popoli europei a esprimersi, ma principalmente scrittori, intellettuali e filosofi che si ritengono adatti a parlare a nome dei cittadini europei, perfettamente coscienti che ancora la maggior parte dei cittadini in carne ed ossa nemmeno capisce di cosa stiamo parlando. Il leader di questo movimento potrebbe essere considerato il filosofo tedesco Jurgen Habermas, che già nel 1995, solo pochi anni dopo che l’idea di cittadino europeo aveva avuto pieno riconoscimento – qualcuno l’aveva definito un guscio vuoto –  scrisse che la democrazia in Europa non può più essere un a realtà vera a meno che non si sviluppi una pubblica sfera di dibattito paneuropeo, una società civile europea con organizzazioni non governative e associazioni di vario tipo, una cultura politica comune, con un sistema dei partiti appropriato all’arena europea. A Renzi avrei chiesto cosa avrebbe fatto, se fosse diventato segretario del Partito Democratico (oggi un partito puramente nazionale). A quale famiglia lo avrebbe aggregato a quella dei Socialisti Europei o a quella dei Popolari (visto che lui proviene dalla gloriosa Democrazia Cristiana)? Oppure avrebbe cercato di creare una famiglia europea dei Democratici, oppure dei Democratici e Socialisti (una sorta di PSDI di Saragat a livello europeo).

L’Europa degli Uffici è emersa dopo la fine della seconda guerra mondiale, soprattutto per l’instancabile energia di un cittadino francese, Jean Monnet, che aveva dapprima lavorato per la Società delle Nazioni a Ginevra e poi si era occupato della Supply Chain tra le forze militari americane, inglesi e francesi (a quanto ne so non ha mai ricoperto cariche politiche, a meno che non si consideri la Presidenza della CECA una carica politica).

Anche l’Europa degli Uffici parla continuamente di trasferimento di poteri dalla periferia al centro. La loro visione (???) viene messa avanti a quella degli Stati, senza nessuna preoccupazione di far sapere almeno a un gruppo ristretto di cittadini di cosa si tratta e tantomeno si preoccupa di discuterne seriamente con altri interlocutori. Quanti italiani conoscono la mitica road map elaborata dalla Commissione Europea e dal presidente Van Rompuy? L’1 per cento, e cioè circa 600.000 italiani e meglio lo 0,1 per cento e cioè circa 60.000 cittadini? Non vorrei essere troppo pessimista, ma credo che anche l’ultima percentuale sia sbagliata per eccesso. Per l’Europa degli Uffici, persino quella dei politici è troppo sopravvalutata e inconcludente. In questo ambito l’Europa dei cittadini non esiste quasi. I tecnoburocrati si occupano di conti pubblici, di bilance dei pagamenti, tassi di interesse e pensano che sia l’Economia a guidare il carro e non la Politica. Il pensiero dell’Europa degli Uffici l’ha espresso al meglio un vecchio Presidente della Commissione Europea, Walter Hallstein: «La natura vera di questo nostro mondo necessita una ridefinizione del significato che noi diamo alle parole politica ed economia, e una riscrittura o forse anche l’eliminazione della barriera semantica tra i due concetti».

Ognuno dei tre discorsi formula a modo suo una verità, la scomparsa della politica, la resilienza dello Stato Nazione e le condizioni disastrose della democrazia. Tornando al futuro, nessuno può essere sicuro quale di questi discorsi prevarrà. Non amo particolarmente Michel Foucault. Ma su un punto mi sembra abbia ragione: «I discorsi non significano soltanto una mera verbalizzazione dei conflitti o dei sistemi di dominio, ma rappresentano l’essenza stessa di quello per cui si combatte».

Fino all’anno della rivoluzione francese, 1789, molti scrittori non si occupavano molto della loro storia comune. Dopo, nessuno ha potuto sottrarsi a farci i conti, da Goethe a Tolstoi, da Manzoni a Leopardi. Nell’Europa di oggi non c’è ancora stato il 1789. Non è detto però che non possa esserci in futuro.