giovedì 2 ottobre 2014

La fine dell'Unione Europea l'Unione Sovietica e quella Jugoslava.



Su questo blog abbiamo più volte scritto come l'Unione Europea sia molto più simile all'Unione Sovietica o alla Ex Jugoslavia di quanto non voglia sembrare agli Stati Uniti.

Se degli Usa riprende il liberismo e i sogni di grande democrazia occidentale, dall'Unione Sovietica prende tutta la struttura di comando centralizzata tipica della classica Unione Burocratica ordinata e imposta dall'alto verso il basso.

Lo stesso era la Ex Jugoslavia. Ed è importante capire che non c'è crollo sociale, soprattutto se repentino e lacerante, che non abbia alla base una grave crisi economica. Le strutture sociali non crollano perchè viene meno una categoria istituzionale importante, un personaggio di rilievo o perchè le sue componenti entrano spontaneamente in fibrillazione. Crollano quando la base materiale del suo essere viene attraversata da gravi e profonde devastazioni economiche. 

Questo è quello che sta accadendo all'interno dell'Unione Europea e che prima è accaduto a Mosca e a Belgrado.

La crisi, che prima ha corroso e poi devastato il debole impianto economico jugoslavo, ha preso le mosse agli inizi degli anni settanta. È la stessa che ha travagliato ben altri segmenti del capitalismo internazionale come quello sovietico, americano ed europeo. È quella crisi che, partita dagli Usa, si è estesa attraverso gli infiniti canali del mercato commerciale e finanziario e che ha segnato la fine di una fase storica, "progressista" in termini di sviluppo, per aprirne un'altra, quella attuale, in cui il ciclo economico si esprime attraverso crisi sempre più ravvicinate e più profonde. Dove le riprese sono più brevi e le solite contraddizioni dei rapporti di produzione capitalistici sempre meno gestibili, dove la tecnologia crea povertà e la disoccupazione è diventata un dato costante del capitalismo moderno.
Gli inizi degli anni settanta hanno rappresentato la fine del grande processo di accumulazione internazionale apertosi con la chiusura della seconda guerra mondiale, e contemporaneamente, hanno gettato le economie capitalistiche, tutte, anche se a diversi livelli e con intensità ineguali, nel baratro della legge della caduta del saggio medio del profitto, con tutte le difficoltà di valorizzazione del capitale che questa comporta. Chi ha resistito lo ha potuto fare attraverso l'ingigantimento del debito pubblico, la finanziarizzazione delle crisi, il decentramento della produzione in aree che garantissero gli extra profitti, con lo spettacolare aumento dell'esportazione del capitale finanziario e la contrazione del costo del lavoro sul mercato interno. Chi non è riuscito in tutto questo, perché non attrezzato sul piano tecnologico e finanziario, perché imperialisticamente troppo debole, ha visto impotente, la propria economia deperire progressivamente sino alla distruzione pressoché completa, con tutte le conseguenze sociali del caso.
Nella prima categoria di paesi possiamo elencare le economie capitalistiche occidentali, Usa ed Europa in testa, nella seconda i paesi a capitalismo di stato, o a economie pianificate, Jugoslavia compresa, anche se il suo "socialismo", ovvero la sua pianificazione, presentava non poche differenze da quella sovietica. E come da legge fisica, i vasi di coccio si sono rotti per primi, mentre quelli di ferro resistono in tregua armata saccheggiando le aree economiche più immediatamente disponibili, le tasche dei rispettivi proletariati, in attesa di una prossima recessione con scontri diretti sempre più ravvicinati.
Il travaglio jugoslavo, come abbiamo detto, inizia sull'esordire degli anni settanta. Precedentemente, sotto Tito, dopo lo storico strappo da Mosca, il capitalismo di stato "autogestito" aveva goduto di una relativa tranquillità e sviluppo. Anche se a ritmi lenti e a bassa intensità l'estorsione di plus valore aveva mantenuto un tasso accettabile, i saggi del profitto erano sufficientemente remunerativi, al pari dei paesi europei a medio-bassa industrializzazione come la Grecia e il Portogallo. I guai sono incominciati ad arrivare all'impatto con l'inversione di tendenza del capitalismo internazionale. Nelle due grandi aree, quella del rublo e quella del dollaro gli indici statistici hanno imboccato la strada della decadenza. In Urss, a partire dal 1970, per ogni piano quinquennale, il Pil è cresciuto a un tasso medio del 2% in meno. La redditività degli impianti del settore industriale del -3% e le produttività dell'intero sistema economico del -2,8%.
Negli Usa, l'amministrazione Nixon, è stata costretta a prendere le storiche misure del 15 agosto 1971. Per la prima volta nella sua storia economica dalla fine della seconda guerra mondiale, gli Stati uniti registrano un deficit nella bilancia dei pagamenti con l'estero. Le scorte auree sono diminuite del 50%, la presenza sul mercato commerciale internazionale inizia a patire la maggiore competitività del Giappone e della Germania sino al punto che il capo dell'esecutivo è costretto a imporre una tassa del 10% su tutte le merci di importazione, la svalutazione del dollaro e la dichiarazione della sua inconvertibilità in oro.
Questi gli esordi. Dopo venticinque anni di amministrazione delle proprie contraddizioni gli Usa si sono trovati all'interno di una crisi economica pressoché costante, con spaventosi deficit sia nella bilancia dei pagamenti con l'estero che nella amministrazione federale, con un debito pubblico pari al 50% del PII. Nello stesso periodo lo stato sociale e quello assistenziale, peraltro mai particolarmente sviluppati, sono stati completamente smantellati. In quello che ancora oggi viene considerato il paese più ricco del mondo, i pensionati sono sull'orlo della fame, si cura soltanto chi dispone di mezzi economici, per gli altri, che sono la quasi totalità della popolazione, la malattia significa indebitamento o morte. In quindici anni, dalle amministrazioni Reagan in avanti, su una popolazione di 250 milioni di abitanti, 40 sono poveri, diseredati che sopravvivono al di sotto della soglia minima di sussistenza. Per reggere alla sempre più esasperata competizione del mercato, sia commerciale che finanziario, gli Usa sono stati costretti a combattere la più importante guerra dopo il tremendo episodio del Vietnam, quella del Golfo, per il controllo del petrolio e hanno chiuso con una rete protettiva (il Nafta) tutto il mercato nord americano. Guerre e protezionismo, fame e disoccupazione accanto a una enorme concentrazione della ricchezza e a una potenzialità tecnologica che non ha riscontri nella storia, sembrano essere il futuro nel campo occidentale.
Sul fronte orientale le cose sono andate peggio. La crisi economica progressiva, l'insopportabile peso del militarismo hanno spezzato le strutture portanti del capitalismo di stato, creando le condizioni politiche del crollo dell'Unione sovietica.
Per la piccola Jugoslavia, a metà strada economica e geografica tra i due blocchi, il percorso è stato più simile a quello sovietico che a quello occidentale. Il Pil comincia a crescere a ritmi ridotti proprio a partire dagli inizi degli anni settanta. Di pari passo sono andati gli investimenti e il saggio di produttività sia nell'industria che nell'agricoltura. Dal 1980 in avanti il Pil è diminuito mediamente dell' l % all'anno. Il debito estero è salito vertiginosamente sino a rappresentare un fardello insopportabile. Questa la progressione: 1970 tre miliardi di dollari di debito; nel 1977 salgono a 12; sono 16 i miliardi nell'85, ben 20 nel 1990 alle soglie della disgregazione.
Il biennio 1989-90 è stato fatale. La produzione industriale precipita a un -10% annuo, -3% nel settore agricolo. Migliaia sono le fabbriche che chiudono. I disoccupati salgono a un milione e mezzo, il 25% della popolazione attiva. L'inflazione pari al 100% nel 1980, sale al 1200% nel 1989 e al 2000% nel '90. È lo sfascio. In più la crisi del Golfo dell'agosto 1990 aggrava ulteriormente la situazione togliendo le forniture petrolifere che la Jugoslavia riceveva proprio dall'Iraq e dal Kuwait.
Il governo centrale di Belgrado ha tentato di correre ai ripari con una serie di misure tanto gravi, impopolari, penalizzanti il mondo del lavoro e l'autonomia della varie repubbliche, quanto inefficaci. In primo luogo ha liberalizzato gli investimenti esteri cercando di dare vita a una serie di joint ventures con l'obiettivo dichiarato di facilitare l'ingresso ai capitali finanziari e alla tecnologia stranieri. La manovra non è riuscita, non tanto perché la Jugoslavia, soprattutto le repubbliche del nord come la Slovenia e la Croazia, non fosse appetibile per le mire del marco e della strapotenza produttiva della Germania, ma perché le vicende internazionali (riunificazione tra le due Germanie e guerra del Golfo) e la scarsa affidabilità del traballante regime politico, avevano dirottato altrove gli investimenti europei e tedeschi in particolare.
In secondo luogo si è tentato di concedere alle imprese una maggiore autonomia gestionale rispetto al Piano, autonomia finanziaria, manageriale, di reperimento delle materie prime e commerciale, come se la causa prima della profondissima crisi economica risiedesse nel Piano e nelle sue reali o presunte soffocanti negatività, e non nelle difficoltà di valorizzazione del capitale indigeno alle prese con problemi di competitività sul mercato internazionale.
Anche questa misura, peraltro tardiva, ha lasciato le cose esattamente come stavano per quanto riguardava la struttura economica e i suoi problemi, modificando soltanto esasperandola, la concorrenza interna tra capitali, settori produttivi, nomenklature e repubbliche.
La terza misura, di ordine finanziario, consisteva in un congruo aumento delle tasse e dei "contributi" che tutte le repubbliche dovevano versare al centro per risanare la finanza pubblica, per pagare il servizio sul debito contratto con gli organismi finanziari internazionali, e quale contributo delle repubbliche più ricche in favore dello sviluppo di quelle più povere.
L'ultima misura, quella più carognesca, riguardava il congelamento dei salari "sine die" oltretutto, in un momento in cui il 25% della popolazione attiva era disoccupata, lo stato sociale in smantellamento e quello assistenziale ormai assente da anni.
Le quattro misure, calate una dietro l'altra nello spazio di pochi mesi, tra la fine del 1989 e gli inizi del 1990, non solo non hanno, come abbiamo visto, sortito effetti positivi per l'economia nazionale in vertiginosa e inarrestabile discesa verso il collasso totale, ma si sono incaricate di esasperare le tensioni sociali e inter repubblicane. Contro il blocco dei salari, centinaia di migliaia di lavoratori sono scesi nelle piazza su tutto il territorio nazionale. Nel solo 1989 si sono registrati 1700 scioperi nel settore industriale. Nelle zone più depresse, come il Kossovo, la Macedonia e l'Erzegovina, disoccupati e agricoltori hanno inscenato violente manifestazioni che hanno costretto il governo centrale di Belgrado a intervenire con la forza pubblica e l'esercito.
Mentre la profondità della crisi, l'esasperazione della concorrenza tra le repubbliche più ricche e quelle più povere, l'aumento dei contributi da pagare a Belgrado e gli interessi crescenti da pagare sul debito estero hanno incominciato a innescare quel processo di centrifugazione degli interessi periferici rispetto al centro che di li a pochi mesi, grazie anche al concorso di fattori esterni, si è trasformato in vera e propria secessione.
È avvenuto cioè, che vecchi rancori, non del tutto sopiti tra serbi e croati, tra le repubbliche più ricche del nord e quelle più povere del sud, tra tutte le repubbliche e la Serbia, nella crisi economica hanno trovato un fertile terreno di coltura.
Le borghesie di stato repubblicane, con maggior intensità quelle del nord, con qualche titubanza quelle del sud, hanno incominciato a pensare che, uscire dalla federazione jugoslava, tagliare il cordone ombelicale con Belgrado, non solo faceva risparmiare a loro notevoli quantità di capitale finanziario che si sarebbe potuto investire produttivamente invece che scomparire nelle casse del governo federale, ma sarebbe stata la condizione per uscire definitivamente dalle gabbie della economia di piano e il mezzo più celere per agganciarsi alle economie dell'Europa occidentale. Ovvero per le nomenklature di Lubiana, Zagabria o Sarajevo, la secessione da Belgrado, dalla decennale serbo centrica amministrazione della Jugoslavia, significava la privatizzazione dei mezzi di produzione, la individualizzazione dei profitti, e la possibilità di trasformare il proprio proletariato in una più efficace fonte di creazione di plus valore grazie all'afflusso di capitali stranieri e di tecnologia occidentali.
Solo a questo stadio dell'evolversi degli avvenimenti, quando i parlamenti repubblicani in rapida successione, uno dietro l'altro, hanno votato lo scioglimento del partito unico, le libere elezioni e con i nuovi governi le secessioni l'essere croato, sloveno o bosniaco mussulmano, è diventato lo strumento ideologicamente più adatto per giustificare la separazione degli interessi delle varie borghesia repubblicane rispetto al governo centrale, all'essere serbo.