mercoledì 20 novembre 2013

La disunione bancaria europea




Un 'interessantissimo articolo che spiega come in Europa si parli d'integrazione ed unione ad ogni costo mentre le banche sono le prime ad aver ridotto le operazioni transfrontaliere del 50% in 5 anni. Il britannico Daniel Gros è stato consulente e advisor della commissione e del parlamento europeo, del fondo monetario internazionale e del governo francese.

A cura di Daniel Gros

BRUXELLES – L'obiettivo della moneta unica doveva essere quello di creare mercati finanziari pienamente integrati; tuttavia, dall’inizio della crisi finanziaria globale nel 2008, la strada intrapresa in tal senso è stata quella della rinazionalizzazione. Il futuro dell’eurozona dipende, pertanto, da ciò che succederà d’ora in avanti, cioè se tale tendenza proseguirà o se i sistemi finanziari europei raggiungeranno la piena integrazione. Entrambe le opzioni sono comunque preferibili a una via di mezzo, che non è né carne né pesce. Purtroppo, però, le cose sembrano andare proprio in questa direzione.
La tendenza verso la rinazionalizzazione è evidente. Dalla fine del boom del credito, nel 2008, le attività bancarie transfrontaliere tra il centro (essenzialmente Germania e i paesi limitrofi più piccoli) e la periferia dell'eurozona sono diminuite di oltre il 50% da circa 1,6 trilioni di euro (2,2 trilioni di dollari). Parte della differenza è finita sul bilancio della Banca centrale europea, ma questa non può essere una soluzione permanente.
Questa tendenza rischia di accentuarsi fino al punto in cui le attività transfrontaliere, ridotte al minimo, non avranno più rilevanza sistemica, come d’altronde accadeva prima dell'introduzione dell'euro. Al ritmo attuale, ciò potrebbe accadere nel giro di pochi anni, con il conseguente disfacimento dell'integrazione finanziaria apportata dall'euro.

La rinazionalizzazione viene ufficialmente considerata una maledizione, ma ha i suoi vantaggi. L’impatto a livello sistemico degli shock nazionali è meno grave quando il debito transfrontaliero è basso. In questo caso, infatti, il default di un istituto bancario di un paese non rischia di contagiarne anche altri, poiché le eventuali perdite non superano i confini nazionali.
Inoltre, ora i sistemi bancari nazionali si possono separare più facilmente, perché i conti correnti dei paesi periferici hanno già raggiunto un saldo approssimativo, che nel 2014 prevede per tutti, tranne che per la Grecia, un modesto surplus esterno. Con l'eccezione della Grecia, i paesi periferici non avranno bisogno di afflussi di capitali nel prossimo futuro.
Questo è uno sviluppo fondamentale. Alcuni anni fa, paesi come la Spagna e il Portogallo avevano gravi deficit delle partite correnti e necessitavano di afflussi di capitale per un importo pari a circa il 10% del loro Pil. Il calo dei prestiti bancari transfrontalieri ha, quindi, rappresentato un forte shock negativo per loro. Tuttavia, con un'eccedenza delle partite correnti, la rinazionalizzazione del sistema bancario, limitando la trasmissione internazionale degli shock finanziari, può rivelarsi una forza stabilizzante.
Quella appena formulata non è una proposta teorica. I risparmiatori italiani, ad esempio, continuano a detenere un volume significativo di attività sull'estero (tra cui i bund tedeschi), mentre quelli stranieri continuano a detenere una quota consistente di titoli di Stato italiani. Tuttavia, i tassi di interesse sui titoli di Stato italiani a lungo termine (e i costi di indebitamento del settore privato italiano) superano quelli sugli equivalenti tedeschi di circa 250 punti base (questo è il premio di rischio). Con una rinazionalizzazione piena, gli investitori italiani venderebbero le loro attività sull'estero per acquistare obbligazioni nazionali, le quali proteggerebbero l'Italia da shock finanziari all'estero e ridurrebbero l'onere del tasso di interesse per l'economia nel suo complesso.
Nel frattempo, gli stranieri continuano a detenere titoli di Stato italiani per un valore pari a circa il 30% del Pil. Se queste obbligazioni fossero acquistate da investitori italiani (che dovrebbero vendere una quantità equivalente di asset esteri a basso rendimento), gli italiani risparmierebbero l'equivalente dello 0,73% del loro Pil nazionale. Qualsiasi premio di rischio che il governo italiano dovesse ancora pagare non andrebbe più agli stranieri, ma ai risparmiatori italiani, il cui reddito aumenterebbe, traducendosi in un guadagno netto per il paese.
Inoltre, se gli italiani detenessero tutto il debito pubblico italiano, un eventuale aumento del premio di rischio risulterebbe meno gravoso. Anche se il premio di rischio raddoppiasse, raggiungendo i 500 punti base, i costi del servizio del debito del governo italiano aumenterebbero, ma i soldi sarebbero versati agli investitori italiani (i cui redditi più alti potrebbero poi essere tassati).
L'opposto della rinazionalizzazione è la piena integrazione dei mercati finanziari dell'eurozona, cioè l'obiettivo dell’istituzione di un'unione bancaria europea. Con un'unione bancaria completa, i prestiti transfrontalieri riprenderebbero e si manterrebbero stabili, poiché le istituzioni comuni si farebbero carico di assorbire gli shock nazionali. Inoltre, i tassi di interesse convergerebbero al ribasso, favorendo il recupero della periferia e la stabilizzazione delle finanze pubbliche.
Purtroppo, un’unione bancaria a tutti gli effetti ha poche chance di realizzarsi nell’immediato futuro. La Bce si appresta alla supervisione dei 120 maggiori istituti bancari, che rappresentano il grosso delle attività bancarie dell’eurozona, ma già sorgono dubbi su quale sarà il passo successivo. La maggior parte dei governi si oppone a un “meccanismo di risoluzione unico” (SRM nel gergo di Bruxelles), perché ciò implicherebbe l'impossibilità di controllare le proprie banche. L’assicurazione dei depositi non viene neanche presa in considerazione, e ci sono ostacoli giuridici e politici alla creazione di vere e proprie garanzie pubbliche comuni.
Fino a quando le garanzie pubbliche per le banche resteranno sul piano nazionale, non ci potrà essere parità di condizioni. In questo scenario, l'integrazione potrebbe al massimo assumere la forma di una "colonizzazione", in cui le banche dei paesi fiscalmente forti sfruttano il basso costo del loro capitale per rilevare istituti nei paesi fiscalmente deboli. Anche nella remota ipotesi che una colonizzazione non incontrasse alcuna resistenza politica, non porterebbe comunque a un sistema bancario più efficiente.
L’eurozona rischia così di restare bloccata in una specie di limbo, con attività bancarie transfrontaliere abbastanza consistenti da trasmettere shock nazionali all’intero sistema, ma un'integrazione finanziaria non sufficientemente solida da assicurare che il capitale fluisca liberamente in tutta l'area della moneta unica. Se si arrivasse alla conclusione che un’unione bancaria completa è impossibile, forse sarebbe meglio lasciare che la rinazionalizzazione faccia il suo corso. Così, almeno, la zona euro ritroverebbe un po’ di stabilità.